Storia della cucina orientale in Italia
Noi italiani siamo un popolo legatissimo alla cucina tradizionale. Negli ultimi decenni però, passo passo, ci siamo aperti a cucine di paesi lontani. Ne abbiamo scoperto i profumi e apprezzato – non senza una iniziale fatica – la diversità.
La cucina orientale, in particolar modo quella cinese e giapponese, è tra le più presenti ed amate sul nostro territorio.
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Ricordi d’infanzia
Negli anni ‘90 i miei genitori si facevano pionieri dell’assaggio della cucina orientale: portavano me e le mie sorelle in uno dei primi ristoranti cinesi della mia città natale, che si trova in provincia di Modena. Pollo alle mandorle, involtini primavera, riso alla cantonese, ravioli di gamberi al vapore intinti nella salsa di soia. Piatti oggi comunissimi, quasi demodé, incarnavano allora l’essenza del nuovo, dell’esotico.
Ricordo ancora le dita che si ingarbugliavano tentando di impugnare le bacchette, che cadevano sfuggendo alla presa. Quei profumi caldi e agrodolci, allora così poco familiari. Parliamo del 1995, sono passati più di venticinque anni e oggi ripensarci fa un certo effetto.
Ma questo accadeva in un paese di provincia, in un’era che senza internet ci impediva di sapere cosa accadeva fuori. Non sapevamo che in grandi città come Milano e Roma la cucina cinese, insieme a quella giapponese, si stava diffondendo già dagli inizi degli anni ’80.
Le prime tappe storiche della cucina orientale in Italia: Roma e Milano
Il primo ristorante cinese in Italia, Shangai, apre a Roma nel 1949.
Era invece il 1962 quando Milano inaugura il suo primo ristorante cinese: La Pagoda. Si trovava in via Fabio Filzi, di fronte alla chiesa di san Gioachino. Ne scrisse Dino Buzzati, iniziando l’articolo con queste parole:
“Ora possiamo respirare: finalmente Milano ha diritto di considerarsi metropoli internazionale.”
Dino Buzzati
Qualche decennio è bastato per portarci da un’iniziale diffidenza macchiata di pregiudizio ad una lenta accettazione che si è trasformata, infine, in goduriosa passione per la cucina orientale.
I nostri nonni non si sarebbero mai chiesti se ordinare pizza o sushi, oggi per molti è la normalità.
L’origine degli all you can eat
La SARS
Dopo gli anni ’80 i ristoranti cinesi e giapponesi continuano ad aprire e diffondere la cultura culinaria asiatica, ma la popolarità doveva attendere.
Un brusco arresto del fenomeno arrivò infatti in concomitanza con la SARS.
È il 2003 quando la SARS raggiunge in nostro continente. Il 13 marzo di quell’anno l’OMS riferisce che:
“Sono stati identificati focolai di una gravissima forma di polmonite atipica in Vietnam, Hong Kong e nella provincia cinese di Guangdong.”
Questa notizia spaventa gli europei e fa credere loro che sia tutta colpa dei cinesi.
Molte attività gestite dalla comunità cinese finiscono per chiudere perché nessuno vuole più entrarci in contatto. Anche i ristoranti la pagano duramente.
Nonostante sia durato meno tempo, un fenomeno simile si è verificato anche nel 2020 agli esordi della pandemia di COVID-19. È stato comprovato, ma è bene ribadirlo: questo comportamento, nel 2003 come nel 2020, fu mosso da un pregiudizio rivelatosi poi infondato.
La rivoluzione
Dopo la SARS i ristoratori cinesi avevano bisogno di rivoluzionarsi per non fallire.
Fu così che molti di loro riconvertirono le proprie attività: alcuni in ristoranti misti, che offrivano piatti cinesi ed italiani, altri in ristoranti giapponesi, che stavano diventando un trend e la cui cucina era considerata “leggera, pulita e sana” dai consumatori.
Così inizia l’era degli all you can eat, in gran parte gestiti da imprenditori cinesi. Ma questo format non era nuovo, i ristoratori non si erano inventati nulla: importarono un format già esistente che si era rivelato vincente negli Stati Uniti!
È in questo contesto storico che fanno la loro entrata in scena piatti della tradizione giapponese che oggi percepiamo familiari e confortevoli. Sushi, sashimi, tempura, udon saltati con verdure e gamberi, spiedini di pollo in salsa teriyaki, chirashi e… piatti un po’ meno tradizionali, come gli uramaki e… il Salmone. Ma ne parliamo dopo.
Ristoranti cinesi e giapponesi oggi
I ristoranti cinesi e giapponesi oggi stanno subendo una quarta rivoluzione. Rivediamo brevemente le prime tre tappe:
- L’arrivo: dagli anni ’50 con lentezza aprono i primi ristoranti cinesi
- La diffusione: negli anni ’80 ristoranti cinesi e giapponesi si diffondono in grandi e medie città
- Crisi e cambio di rotta: nel 2003 molte attività cinesi falliscono e parte dei sopravvissuti si riconvertono a ristoranti giapponesi, portando gli all you can eat in Italia
La quarta rivoluzione della cucina orientale in Italia
Da una decina di anni la noia e la standardizzazione dettata da ristoranti con menù tutti uguali stanno portando ad un nuovo cambio di direzione. C’è una nuova curiosità nell’aria, un desiderio di ricerca di sapori autentici che si traduce nell’apertura di ristoranti cinesi e giapponesi più tradizionali e particolari.
Localini a volte piccoli ma ricercati, più specializzati in pietanze specifiche o regioni. I volti dell’oriente hanno personalità sfaccettate e finalmente si esprimono nella loro identità.
Cosa NON TROVI nei ristoranti in Giappone
Quando la cucina cinese e quella giapponese sono state portate nel mondo occidentale ci sono stati delle… modifiche. Il nostro palato non era abituato a certi sapori tipici del lontano Oriente. Così, chi li ha portati qui ha cercato di riadattarli.
Il palato occidentale apprezza colori e sapori più forti e vistosi di quello giapponese, ad esempio. Per questi motivi, i ristoranti si sono adattati e servono anche insospettabili piatti fusion! Ad esempio…
Gli Uramaki
Durante gli anni ’60 negli Stati Uniti hanno inventato un modo diverso di preparare i maki, che sono invece quelli originali. Sembra che la natalità di queta invenzione sia dello stato della California, nella little Tokyo di Los Angeles. Vi dicono nulla gli uramaki california? Quelli con dentro surimi o polpa di granchio, avocado e, a volte, cetriolo? Ecco.
Curiosità: anche Vancouver rivendica l’ideazione degli uramaki, e non è semplice definire chi detiene la paternità di questo piatto ma… diciamocelo, poco importa.
Perché inventare gli uramaki?
Gli occidentali non vedevano di buon occhio il cibo di colore scuro come le alghe, a cui non erano per nulla abituati. Non lo trovavano attraente né avevano confidenza con il sapore. Nacque così l’idea del California roll, un maki al contrario che pone l’alga all’interno perché sia nascosta alla vista.
La parola Uramaki è infatti composta dalle parole “ura”, al contrario, e “maki”, roll.
Anche gli ingredienti degli Uramaki sono spesso poco giapponesi. Ne sono un esempio il formaggio philadelphia, la polpa di granchio, l’avocado, il pollo, la maionese e… il salmone.
Il salmone retroattivo
Per noi è usuale trovarlo come ingrediente, nel sushi o nel sashimi ad esempio.
In realtà è abbastanza ovvio: il salmone non vive nel mar del Giappone né nei suoi fiumi. Lo abbiamo introdotto noi occidentali.
Il vero colpo di scena però c’è stato: alla fine, dagli anni ’90 il salmone è arrivato anche in Giappone, dove era ritenuto una sorta di new entry esotica. Inizialmente al popolo giapponese non piaceva molto: il salmone ha un odore ed un sapore a cui non erano abituati, oltre a trovare il colore troppo acceso.
Oggi la Norvegia fa la parte del leone in questo mercato: è da lì che parte, infatti, il 60% del salmone esportato in tutto il mondo e l’80% di quello che va in Europa. Il Giappone non è comunque rimasto a guardare: nel 2014 il gruppo Mitsubishi ha fatto un’Offerta Pubblica di Acquisto al gruppo Cermaq, colosso dell’allevamento di salmone norvegese, per 1.1 miliardi di Euro. L’accordo è andato a buon fine portando ad un asse nippo-norvegese.
Conoscete altre curiosità legate al cibo originario del Sol Levante e volete condividerle con la community? Scrivetele nei commenti, sarà bello parlarne e scoprire nuovi lati di questa storia. Vi aspetto lì
Fonti:
- Corriere d’informazione 2-3 ottobre 1962
- Istituto Superiore di Sanità
- La Repubblica finance
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